Sindrome premestruale: quello che (al)le donne non dicono
Tempo fa una donna è arrivata da me lamentando un umore generalmente instabile, con tendenze depressive che si acuivano ogni mese prima del ciclo mestruale. Per una settimana non usciva di casa se non per andare al lavoro, dove le sue prestazioni si abbassavano drasticamente. La vita sociale ne risentiva e il rapporto con il marito veniva spesso messo a rischio da un’emotività esplosiva. Lo spettro di sintomi presentati richiamava senz’altro quella che viene comunemente definita sindrome premestruale, ma a colpirmi fu il modo in cui veniva raccontata:
“Mi sento come sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, come se qualcuno ad un certo punto mi iniettasse della droga e per qualche giorno, fino alla scomparsa dei suoi effetti, io non fossi più in me. Poi, in un istante, ritorno”.
A modificarsi non erano solo il suo umore e il suo equilibrio emotivo, ma anche il suo comportamento e i suoi pensieri. Con una generale sensazione di perdita di controllo sul funzionamento della propria persona.
Di fastidiosi disturbi legati alla fase premestruale soffre circa il 70% delle donne; di queste, il 25% li descrive come così pesanti da interferire con la normale quotidianità. Nel 3-5% dei casi la sintomatologia è talmente grave da creare un disagio importante e una forte compromissione del funzionamento personale.
Recenti studi inglesi hanno rilevato una correlazione non solo tra squilibri ormonali premestruali e tentativi di suicidio femminili, ma anche tra questi e atti criminali di varia natura (circa il 50%). Inoltre, sempre nel Regno Unito, tale condizione è già stata utilizzata come elemento di difesa in processi per omicidio ed accolta dai giudici come attenuante. E’ famoso il caso di Anna Reynolds, oggi scrittrice e sceneggiatrice, che a 17 anni uccise sua madre nel sonno con un martello. O quello di Sandie Craddock, accusata di omicidio e svariati crimini tutti commessi nei giorni precedenti il ciclo.
Nel 2013 il DSM-V, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, ha introdotto la sindrome premestruale come disturbo riconosciuto. Il suo nome è Disturbo Disforico Premestruale, dove “disforico”, negli psicodiscorsi, identifica un umore tendenzialmente basso.
Come sempre, liquidare culturalmente un fenomeno così complesso traducendolo in una schematica diagnosi psicopatologica (c’eravamo appena liberati dell’isteria…!!!) non solo non aiuta a capirlo. Rischia anche di continuare ad alimentare anacronistici luoghi comuni sulle debolezze di genere e sulla sofferenza umana intesa come malattia da evitare con ogni mezzo.
Neanche a dirlo, le uniche a godere di questa ipersemplificazione (oltre che a contribuire a crearla) sono le case farmaceutiche che, confezionata la malattia, hanno subito creato la risposta chimica. E in questo caso senza nemmeno grossi investimenti visto che hanno semplicemente cambiato nome al Prozac, creando il di-rosa-vestito Sarafem!
Come dire… non sei sofferente, sei matta!
In realtà, un’infinità di fattori individuali concorrono a definire il disagio psicofisico premestruale. Tra questi, livelli ormonali individuali, sensibilità recettoriale alle normali fluttuazioni, patologie o terapie in atto. Oltre a terapie contraccettive o comunque ormonali, stato psicologico, rapporto di coppia, situazioni di vita. Nei casi più gravi, si aggiungono i vissuti di impotenza e frustrazione generati di per sé dalla consapevolezza di vivere questa condizione sfibrante e involutiva.
Si, perché da fuori tutto questo non si vede ed è (in parte) comprensibile che le persone intorno non sappiano come comportarsi per gestire certe situazioni e contenere inutili ed evitabili degenerazioni.
Tuttavia, i partner in particolare si stanno rivelando sempre più sensibili al tema della sindrome premestruale e sempre meno disposti ad assecondare l’idea che si tratti solo di ‘ormoni’ o di ‘sfoghi di follia’ che non possono far altro che subire. Cercano spesso aiuto per capire cosa accade alle loro compagne in quei momenti e come poterle sostenere. Sanno quanto questo li possa avvicinare a quella dimensione e li renda capaci di favorire un clima di coppia ben lontano dalle tensioni a cui sono abituati. Così da trasformare quelle fasi di scontro in uno spazio di intimità e unione, dove fare esercizio di ascolto e rispetto delle reciproche esigenze e diversità.
Le donne che vivono questo malessere nella forma più grave possono migliorare la qualità della loro vita a patto che imparino ad accettarlo e rispettarlo come espressione della propria persona e delle proprie naturali contraddizioni e che chiedano l’aiuto giusto. Un’accurata valutazione ginecologica permette di definire la propria condizione individuale e di introdurre eventuali terapie. Dall’altra parte, una consulenza psicologica è utile per capire come affrontare i momenti più difficili e quali fattori individuali alimentano il malessere. E, laddove possibile, per coinvolgere i partner in un processo dentro al quale, paradossalmente, anche loro scopriranno nuovi ritmi e nuovi modi di vivere la coppia.