Il modello teorico
In studio: “Quando mi hanno ricoverata in ospedale la prima volta mi hanno detto che ero anoressica.
Ma io non sono anoressica, ho risposto, io sto male!!!”
Troppo spesso la psicologia viene interpretata ed esercitata come disciplina che riguarda il privato, approcciando il disagio mentale come se fosse un problema del singolo e riguardasse solo la sua interiorità.
Quando la psicologia perde di vista la dimensione di salute pubblica e comunitaria, facendo della sofferenza mentale una faccenda solo personale e della terapia una questione di riallineamento a un “funzionamento normale e stabilizzato”, rischia di contribuire essa stessa alla stigmatizzazione e alla resistenza al cambiamento attraverso la riproposizione di quegli stessi schematismi culturali, riduzionisti e normativi, generativi del disagio.
Secondo la visione ecologico-sociale e il modello teorico interazionista, la sofferenza mentale si definisce quale esperienza multidimensionale che si genera all’interno delle complesse dinamiche relazionali in cui la persona è immersa (fisiche e corporee, spirituali, sociali, ambientali, culturali) e attraverso gli articolati processi di costruzione dei significati dell’esperienza soggettiva. Il sintomo, spesso considerato “il problema”, ne è in realtà la sua espressione più emblematica e rappresenta una chiamata ad agire nello spazio delle relazioni nel tentativo di armonizzare il bisogno di riconoscimento e legittimazione della propria diversità e unicità con il bisogno di appartenenza.
Come insegnava Franco Basaglia, il disagio mentale è una condizione che emerge dalla “normalità” e, come tale, può essere compresa solo attraverso la lente interpretativa della normalità stessa e non secondo codici a sé stanti. Ho maturato a questo proposito una consapevolezza circa i limiti intrinseci dei sistemi di classificazione diagnostica più comunemente utilizzati per l’analisi del disagio emotivo e dei comportamenti problematici: la diagnosi psicopatologica scatta di fronte ad uno scollamento rispetto alla norma attesa, all’imprevedibilità o all’impossibilità di governare un comportamento e ci parla più della necessità di ripristinare la norma che dell’orizzonte di senso e significati generativo di quel disagio. E in genere, ciò che è “norma” è una soggettiva definita in base a ragioni di ordine sociale più che a ragioni umane e sanitarie.
Partire da premesse interpretative della sofferenza mentale diverse da quelle medicalizzanti e psichiatrizzanti, fondate sulla complessità intrinseca della persona e della sua relazione con il mondo e sul riconoscimento del rapporto fra disagio individuale e salute pubblica, comporta dunque un intervento terapeutico innovativo che apre a possibilità evolutive inattese e più libere. Quello che accade non è una guarigione da qualche malattia, ma la ripresa di un percorso di crescita fondato su uno scambio generativo e vitale con i propri contesti di vita, in cui si impara ad abitare la dimensione relazionale ed esistenziale in modo più consapevole, creativo e con un ritrovato senso di responsabilità.
Il modello teorico
